Dopo la mia povera riflessione mi permetto di dare a tutti voi le riflessione del fratello Enzo Bianchi
oggi in questa giornata specialissima…. e faccio così gli auguri a Artur, piccolo grande uomo…. a dopo per la riflessione settimanale.. Albert
Pubblichiamo il testo integrale del discorso che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, ha pronunciato il 3 ottobre in Senato in occasione della prima Giornata nazionale per la memoria delle vittime dell’immigrazione.
L’incontro è stato trasmesso in diretta dalla web-tv e dal canale satellitare di Palazzo Madama.
Onorevole Presidente del Senato Pietro Grasso,
Onorevole Senatore Luigi Manconi,
Onorevoli Senatori e Deputati della Repubblica Italiana
Signore e Signori,
sono profondamente onorato per l’invito rivoltomi a commemorare insieme a Voi le vittime dell’immigrazione in questa I Giornata nazionale a loro dedicata. Vi ringrazio di cuore per l’opportunità concessami e, ancor più, per aver istituito questo momento di memoria collettiva così prezioso per la qualità della nostra convivenza civile.
Il titolo assegnato a questo mio intervento – Io sono stato straniero – riecheggia una parola indirizzata a più riprese nella Bibbia al popolo di Israele: “Ricorda che sei stato straniero nel paese di Egitto”, oppure: “tu agirai così perché anche tu sei stato straniero!”. Parole che sono un invito a sentirsi stranieri e, proprio a partire da questa autocoscienza, assumere la responsabilità verso gli stranieri che giungono a noi nella loro irriducibile e di primo acchito insondabile diversità. Per questo risuona il comandamento: “Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” (Dt 10,19; 24,17; Esodo 22,20; 23,9; Lev 19,34). Ecco il paradigma: ciascuno di noi è straniero rispetto ad altri e proprio per questo può comportarsi rispetto allo straniero come lui vorrebbe che altri si comportassero nei suoi confronti.
Ma vorrei affrontare questo tema usando come chiave interpretativa il testo attribuito a Shakespeare che ci invita a “vedere gli stranieri”. Rievocando la minaccia di espulsione dal paese di una folla di persone “diverse” per religione e nazionalità, il Bardo invita a interrogarsi sui motivi di questa migrazione, poi esorta a immedesimarsi nei fuggiaschi per trarne le conseguenze a livello di comportamento etico. “Vedere gli stranieri” può allora declinarsi in diverse modalità – vederli da lontano, vedere se stessi, vederli da vicino, vederli come concittadini – e sfociare in una dimensione inattesa: gli stranieri come dono.
1) Vedere gli stranieri da lontano: la lungimiranza.
Di fronte al fenomeno migratorio – antico quanto il mondo e sempre percepito con dimensioni sconvolgenti – e alla connotazione che ha assunto in Italia negli ultimi decenni appare fuorviante continuare a definirlo con il termine “emergenza”. Sarebbe invece molto più sensato ed efficace considerarlo un’inevitabile conseguenza di una serie di fattori in massima parte legati ai nostri comportamenti, a cominciare dalle guerre, dalla sete di potere e dallo sfruttamento iniquo delle risorse del pianeta. Da sempre è la fame che va verso il pane, non viceversa, e non ci sono né muri né mari capaci di fermare chi è talmente disperato da considerare un viaggio senza speranza preferibile alla certezza di una morte atroce nella propria terra. O pensiamo davvero che se uno avesse anche una minima aspettativa di sopravvivenza umana “a casa sua”, metterebbe a repentaglio la vita propria e dei propri cari in un’avventura letteralmente bestiale attraverso deserti, violenze e abissi di disumanità?
“Vedere gli stranieri” da lontano allora significa lungimiranza sulle cause che li muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame; i profughi dovuti ai cambiamenti climatici – i deserti avanzano e i mari si alzano… – a quelli causati da rivolgimenti politici. Significa anche capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente ovunque si trovino poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi a quelli di esseri umani.
2. Vedere se stessi negli stranieri: immedesimazione e identità.
Non dovrebbe essere difficile per noi italiani applicare questo paradigma, anche perché la nostra “stranierità” è ancor oggi riscontrabile e vissuta, pur essendo cessati i grandi flussi migratori conosciuti fin dall’inizio della nostra esistenza come Stato unitario. Lo straniero, in verità, è lo specchio della stranierità che ci abita, è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscendo la stranierità in noi, possiamo compiere un cammino che non rimuove, non teme, non demonizza il forestiero che appare in mezzo a noi. Scrive Julia Kristeva: “Stranamente lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità, è lo spazio che scuote la nostra dimora, il tempo in cui si spezzano l’intesa e la simpatia. Riconoscendo lo straniero in noi stessi, possiamo non detestarlo in lui”. Anche il grande poeta cardiognostico Edmond Jabès, che ha dedicato molte riflessioni alla stranierità e alla conseguente ospitalità, ha scritto: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero” e, ancora, “la distanza che ti separa dallo straniero è quella che ti separa da te stesso”.
Questo atteggiamento eviterebbe il rischio di assolutizzare la propria identità intesa in modo esclusivo ed escludente, con arroccamenti difensivi dei propri valori, creando presidi contro le minacce a un’identità culturale, religiosa, nazionale mitizzata. L’identità, infatti, sia a livello personale che comunitario, si è costruita e sempre si costruisce attraverso l’incontro e la relazione con gli altri, diversi e stranieri. L’identità non è statica, acquisita una volta per sempre, ma è un divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto policromo costituito dalla trama di molti fili.
I risorgenti localismi, le tentazioni particolaristiche prima o poi generano spinte xenofobe e razziste, tendono all’esclusione dell’altro, si risolvono in un autismo socioculturale in cui si vive un ideale regressivo di auto-isolamento e si assumono linguaggi e modi espressivi rozzi, che alimentano la barbarie dei comportamenti. Regna allora l’idolo dell’identico, il metro del medesimo, del “noi” senza o addirittura contro di “loro” e la nostra ricca identità – plasmatasi con la fatica e il fascino di secoli di scambi fecondi – si immiserisce a sistema chiuso nel quale non pratichiamo più l’incontro con l’altro né lo scambio culturale.
Lo straniero invece è portatore di una relazione che riguarda il nostro essere più profondo e che ci fa cogliere il significato del monito biblico: “ama lo straniero perché tu sei stato straniero” e continui ad esserlo rispetto a un orizzonte che non hai ancora attraversato.
3. Vedere gli stranieri da vicino: non distogliere lo sguardo e vincere le paure
Giunto da lontano, lo straniero si rivela per quello che è: radicalmente altro, per colore della pelle, tratti somatici, lingua e cultura, religione ed etica, costumi e atteggiamenti. È l’altro radicalmente altro da me: era lontano e ora mi è vicino, mi è diventato prossimo. Ora compete a me farmi suo prossimo, avvicinarmi a lui.
Ma proprio in questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure si ritrovano a confronto: la mia paura e quella dello straniero. Io devo mettere innanzitutto la sua paura, quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. L’emigrato è solo, non ha più un paese alle spalle: è la prima cosa che ha smarrito non appena partito, in una fuga disperata o in un’avventura di speranza.
La mia paura, invece, è quella di ritrovarmi di fronte a uno sconosciuto, uno che è entrato nella “mia” terra, ora presente nel “mio” spazio e, nonostante lui sia solo, mi lascia intravvedere che molti altri lo seguiranno. Due paure a confronto, due paure che nascono da due diversità contrapposte. Certo, la paura è uno stadio incoativo: va superata, ma per farlo è necessario innanzitutto affrontarla e non rimuoverla. Lasciata nelle mani degli imprenditori della paura, pronti a usarla per fini politici, essa lievita fino a paralizzare ogni azione e a sprigionare mostri, come il sonno della ragione. Se invece la si nega, si rischia di idealizzare la differenza dello straniero, di assolutizzarne la cultura, arrivando ad abdicare alla propria o a colpevolizzarla. La paura invece va razionalizzata, assunta, così da trasformarla in stimolo per un lucido esame della situazione e in ingrediente per soluzioni capaci ottemperare a esigenze apparentemente contrapposte.
4. Vedere gli stranieri come concittadini
Ora, la razionalizzazione delle paure richiede che ci si interroghi seriamente su quali modelli di incontro tra stranieri e italiani cerchiamo di attuare ai diversi livelli decisionali e comportamentali: dalle istituzioni educative agli organi legislativi, dall’associazionismo alla società civile, dal diritto civile all’uso del tempo libero, dagli strumenti comunicativi alle istanze culturali. Schematicamente potremmo identificare quattro modelli che, se hanno conosciuto diverse fasi di maggiore o minore applicazione, non cessano tuttavia di essere contemporaneamente presenti nella società italiana:
– l’assimilazione,
– l’inserimento,
– l’integrazione,
– la cittadinanza.
E questa analisi è attraversata da una domanda di fondo: quando e fino a quando una persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come tale nel nostro paese, anche se infante, e lo rimane per tutta la sua vita? Lo è chiunque, pur nato cresciuto ed educato in Italia, non abbia (ancora) ottenuto la cittadinanza italiana? E quando scompare dal linguaggio comune la discriminante aggiunta: “cittadino italiano di origine … non-italiana”? Quante generazioni ci vogliono perché un cognome “straniero” cessi di suonare come tale?
Un tempo il modello predominante che caratterizzava l’incontro italiano-straniero era quello dell’assimilazione, tendente cioè a rendere le persone simili tra loro cancellando le differenze culturali e assorbendo di conseguenza un “diverso” che cessava per ciò stesso di esserlo. Se un “non nativo” non riesce ad assumere quello che “noi” siamo e come “noi” ci comportiamo, finisce escluso dalla società, rimanga o meno nel territorio della nazione ospitante.
Questa logica di esclusione, così attraente perché sbrigativa, ma altrettanto controproducente a medio e lungo termine, è mitigata dall’approccio dell’inserzione: viviamo gli uni accanto agli altri con le nostre differenze giustapposte e attente a non offendersi reciprocamente. Gli uni resteranno sempre estranei agli altri, in una tipica relazione di “indifferenza” che ottempera la presenza di una o più minoranze all’interno di una maggioranza che considera se stessa come monolitica e impermeabile.
L’integrazione invece presuppone il riconoscimento delle differenze, l’adeguamento ad esse attraverso trattamenti differenziati nell’ottica di una inter-culturalità che consente di convivere tra somiglianze e differenze. È una prospettiva che si accontenta di un’uguaglianza nel “minimo comune” di diritti, di un equilibrio di dare/avere che facilita la partecipazione attiva di tutti alla vita economica e produttiva, anche se alcuni diritti/doveri restano in capo solo a quanti hanno la piena cittadinanza o subordinate a remore culturali o etniche.
Infine la con-cittadinanza – intesa non solo come definizione giuridica, ma come piena condivisione della polis in cui si abita – è lo spazio comune in cui diviene impossibile continuare a parlare di “noi” e “loro” e in cui la logica dell’uguaglianza attiva diviene anche abito mentale e culturale dell’insieme della società.
5. Vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione
Ogni essere umano è un essere razionale e relazionale, ed è grazie alle relazioni che può costruire se stesso e diventare un soggetto: relazioni con se stesso, nella vita interiore, relazioni con il mondo, gli altri e, quindi, relazioni di alterità. Ma costruire la relazione con gli altri non va da sé: si tratta di assumere comportamenti che rendano possibile l’incontro nella trasparenza e nel riconoscimento della dignità dell’altro. Il cammino è esigente e sovente anche faticoso, ma senza l’altro non è possibile avanzare nella propria umanizzazione.
Appare allora esigenza ineludibile riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscerne la dignità, il valore umano inestimabile, accettarne la libertà. Riconoscere l’altro nella sua differenza (di sesso, di età, di religione, di cultura…) significa ammetterlo, dire un sì, desiderare di fargli posto e, quindi accettarlo. Questo non è sempre evidente, perché la differenza dell’altro, come dicevamo, fa sempre paura: c’è in ciascuno di noi una pulsione a respingere ogni forma culturale, morale, religiosa, sociale lontana da noi, a noi sconosciuta. Da qui nascono incomprensioni, paure, intolleranze. Lévi-Strauss ci ha ricordato che questo atteggiamento etnocentrico deve esser e vissuto nella sua dimensione positiva non rinnegando la propria cultura ma legittimandola, rispettando, riconoscendo e comprendendo le culture altrui. I nostri modi di pensare e di essere non sono i soli possibili e noi dobbiamo imparare dagli altri, relativizzando le nostre convinzioni e i nostri comportamenti. Diventa perciò assolutamente necessario accettare il relativismo culturale, che chiede di conoscere le culture degli altri senza misurarle e giudicarle a partire da una pretesa superiorità della nostra.
Sì, nella relazione di alterità si prende il rischio di esporre la propria identità a ciò che essa può diventare. Ma a queste condizioni può iniziare il dialogo, che è sempre ricerca di inter-comprensione: non semplice conoscenza dell’altro, non solo confronto di identità, ma conoscenza penetrativa e “simpatica” dei valori dell’altro, comprensione che non deve esser voracità, che non annulla le differenze fagocitandole, ma fa vivere convergenze e divergenze in un confronto dinamico e fecondo. Il dialogo non può avere come fine l’uniformità, ma il fare cammino insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. Nel dialogo allora si modificano i pregiudizi, le immagini, gli stereotipi che abbiamo degli altri e di noi stessi e siamo indotti a riflettere sui nostri condizionamenti culturali, storici, psicologici, sociologici: siamo interrogati sulle nostre certezze e sulla nostra identità.
Questo è l’inizio di un cammino che vuole trasformare la possibilità o l’ineluttabilità della convivenza in una scelta consapevole, in una ricerca di comunicazione interculturale che trova un fondamento nella responsabilità per l’altro. Non dimentichiamo la lezione di Lévinas: la responsabilità è per l’altro ed è la struttura essenziale per la soggettività: “Io sono nella misura in cui sono responsabile!”.
Il riconoscimento dell’altro – chiunque sia: straniero, povero, bisognoso, ultimo, povero – si impone se esercito questa responsabilità che caratterizza l’essere umano. Ecco perché nelle prime pagine della Bibbia – il “grande codice” come lo chiamava Frye – risuonano due domande essenziali: “Adam, Terrestre, dove sei?” e l’altra, conseguente: “Che hai fatto di tuo fratello, dell’umano come te?”. Perché l’altro uguale in dignità a ciascuno di noi, dalla sua situazione ci lancia un appello, chiede di rispondergli con le risorse che possiedo, e io devo agire senza attendermi reciprocità, nel vero disinteresse per me stesso. Non dimentichiamoci che senza affermare e vivere in primo luogo la fraternità, anche la libertà e l’uguaglianza sono fragili, asteniche e tendono a essere occultate nella convivenza sociale. Sì, vedere gli stranieri come compagni di umanità restituisce pienezza al meglio di noi stessi e della società.
Conclusione
Nella quarta di copertina di uno splendido libro sulla condizione dei lavoratori immigrati in Europa uscito negli anni ’70, John Berger afferma: “Per mostrare direttamente al lettore la vita di questi lavoratori, ci occorreva ricorrere all’analisi politica e alla poesia, alle citazioni di economisti e al romanzo, ma ci occorrevano soprattutto delle fotografie. Spero che questo libro possa aiutare a mettere in crisi certe idee preconcette”1. La fotografia è un mezzo potente per metterci di fronte al dolore degli altri. Ricordo una fotografia del 2009 apparsa su Paris Match: un immigrato respinto in Libia, inginocchiato, afferra implorante e piangente con le sue mani nude la mano coperta da un guanto di lattice azzurro di chi lo sta riportando là da dove lui voleva andarsene, fotografia che contiene più verità di ogni nostro ragionamento. Ecco la verità che non andrebbe mai dimenticata quando ci si accapiglia nei dibattiti sulla difesa dell’identità nazionale o religiosa, ecco il momento applicativo di una politica di respingimento colto nella fisicità del “no” a un poveretto disperato. Le affermazioni di principio e gli slogan ideologici devono confrontarsi con un volto preciso, entrare in un faccia a faccia con una persona che chiede asilo, protezione, futuro, accoglienza. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che dietro alle decisioni politiche e alle leggi sull’immigrazione vi è la sfida che il corpo del povero porta con sé: e la nostra risposta a questa sfida non può essere un piede che schiaccia la mano appesa al bordo di un barcone. La fotografia consente di cogliere immediatamente e senza contorcimenti logici l’elementare verità che sta dietro a ogni decisione politica e alle leggi da esse ispirate: che tale politica interferirà con il corpo di un uomo, con il suo volto, dunque con la sua anima, con il suo desiderio, con la sua storia, con la sua famiglia, con la sua biografia, e influenzerà la sua intera vita, nel bene o nel male. Fino al punto di aiutare la vita o di farsi complice della morte. E forse proprio quella foto esemplifica una delle forme della morte del prossimo di cui parla Luigi Zoja.
Scrive Edmond Jabès: “Avvicìnati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che io sono”. Noi stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa seria, per ciascuno di noi, è di incontrarli nel faccia a faccia, personalmente, di ascoltare direttamente le loro storie, di vederli nell’occhio contro occhio.
Il titolo “Vedere gli stranieri” è la citazione di un testo attribuito a William Shakespeare:
Immaginate allora di vedere gli stranieri derelitti,
coi bambini in spalla, e i poveri bagagli
arrancare verso i porti e le coste in cerca di trasporto,
e che voi vi atteggiate a re dei vostri desideri
– l’autorità messa a tacere dal vostro vociare alterato –
e ve ne possiate stare tutti tronfi nella gorgiera della vostra presunzione.
Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato a tutti
che a prevalere devono essere l’insolenza e la mano pesante.
Vorreste abbattere gli stranieri,
ucciderli, tagliar loro la gola, prendere le loro case
e tenere al guinzaglio la maestà della legge
per incitarla come fosse un mastino. Ahimè, ahimè!
Diciamo adesso che il Re,
misericordioso verso gli aggressori pentiti,
dovesse limitarsi, riguardo alla vostra gravissima trasgressione,
a bandirvi, dov’è che andreste? Che sia in Francia o Fiandra,
in qualsiasi provincia germanica, in Spagna o Portogallo,
anzi, ovunque non rassomigli all’Inghilterra,
orbene, vi trovereste per forza ad essere degli stranieri.
Vi piacerebbe allora trovare una nazione d’indole così barbara
che, in un’esplosione di violenza e di odio,
non vi conceda un posto sulla terra,
affili i suoi detestabili coltelli contro le vostre gole,
vi scacci come cani, quasi non foste figli e opera di Dio,
o che gli elementi non siano tutti appropriati al vostro benessere,
ma appartenessero solo a loro? Che ne pensereste
di essere trattati così? Questo è quel che capita agli stranieri,